Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sentenza del 4 giugno 2015, causa C-195/14 (riferimenti normativi: dir. 2000/13/CE, reg. (UE) 1169/11, reg. (CE) 178/02)

Gli articoli 2, paragrafo 1, lettera a), sub i), e 3, paragrafo 1, punto 2, della direttiva 2000/13/CE devono essere interpretati nel senso che ostano a che l’etichettatura di un prodotto alimentare e la relativa modalità di realizzazione possano suggerire, tramite l’aspetto, la descrizione o la rappresentazione grafica di un determinato ingrediente, la presenza di quest’ultimo in tale prodotto, quando invece, in effetti, detto ingrediente è assente e tale assenza emerge unicamente dall’elenco degli ingredienti riportato sulla confezione di detto prodotto.

Il caso giunto al vaglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) per effetto di rinvio pregiudiziale riguardava una controversia decisa dai giudici tedeschi e insorta tra l’Unione federale delle Associazioni dei consumatori e una società che commercializzava un infuso alla frutta. Il tema del contendere verteva sulla circostanza che la confezione indicava in etichetta, tra gli ingredienti, l’utilizzo di aromi naturali al gusto di lampone e vaniglia, ma riportava in evidenza immagini di lamponi e di fiori di vaniglia, la dicitura “infuso ai frutti con aromi naturali” nonché un sigillo grafico contenente la scritta “solo ingredienti naturali”. L’Unione contestava vittoriosamente in primo grado la complessiva ingannevolezza di quanto riportato sulla confezione in base al contenuto della direttiva 2000/13/CE e della disciplina nazionale sull’etichettatura e presentazione dei prodotti alimentari. Per contro, l’appello dava ragione alla società, osservando che dall’elenco degli ingredienti risultasse correttamente che gli aromi utilizzati avessero soltanto il gusto di lampone e di vaniglia. Pertanto, tale indicazione informava senza ambiguità che gli aromi utilizzati non erano ottenuti a partire da vaniglia e da lampone, ma che ne riproducevano soltanto il sapore. A sua volta, l’Unione proponeva ricorso contro tale ultima decisione e il nuovo giudice, se da una parte condivideva la conclusione che l’etichettatura dell’infuso fosse ingannevole, in quanto idonea a dissuadere il consumatore dal prendere cognizione degli effettivi ingredienti utilizzati, dall’altra sollecitava in via pregiudiziale l’intervento della Corte di Giustizia sulla conforme interpretazione del diritto unitario. In particolare, il giudice tedesco chiedeva se la normativa europea autorizzasse l’autorità nazionale a considerare ingannevole l’etichettatura nonostante l’esplicita corretta indicazione degli ingredienti impiegata. La CGUE segnala, in primo luogo, che la direttiva 2000/13/CE è stata abrogata dal regolamento (UE) 1169/11, ma che è comunque la prima che deve essere applicata in ragione del tempo di commissione del fatto. Tanto non cambia dal punto di vista di questo commento, poiché, vedremo meglio fra poco, che l’argomentazione sviluppata da detto giudice si attaglia perfettamente anche alla nuova normativa. La Corte fa un’ulteriore premessa, ricordando che non le spetta di decidere il caso concreto, cioè, nella specie, se l’etichettatura dell’infuso sia realmente ingannevole, compito demandato in via esclusiva al giudice nazionale, ma soltanto di interpretare il diritto unitario in maniera vincolante per il giudice di rinvio. A questo proposito, mi si permetta un inciso, osservando che non infrequentemente il giudice nazionale ricorre in maniera pilatesca alla Corte quando non sa bene che pesci prendere. Forse, anche nell’occasione, il giudice tedesco avrebbe potuto evitare il rinvio, essendo la direttiva – come pure il successivo regolamento – chiara nell’indirizzare la soluzione del caso. Entrando in medias res, la Corte nota che, secondo la direttiva, l’etichettatura e le relative modalità di realizzazione non devono essere tali da indurre in errore l’acquirente, specialmente per quanto riguarda le caratteristiche del prodotto alimentare e, in particolare, la natura, l’identità, le qualità, la composizione, la quantità, la conservazione, l’origine o la provenienza, il modo di fabbricazione o di ottenimento dello stesso. In altri termini, si impone che l’acquirente disponga di un’informazione corretta, imparziale e obiettiva che non lo induca in errore (come già precisato dalla sentenza della CGUE del 25 novembre 2010, causa C-47/09). A sua volta, l’art. 16 del regolamento (CE) 178/02 ribadisce che la pubblicità e la presentazione degli alimenti, compresi la loro forma, il loro aspetto o confezionamento, i materiali di confezionamento usati, il modo in cui gli alimenti sono disposti, il contesto in cui sono esposti e le informazioni rese disponibili su di essi attraverso qualsiasi mezzo, non devono trarre in inganno i consumatori. Il combinato disposto delle due normative porta alla conclusione, secondo la Corte, che l’etichettatura di un prodotto alimentare non possa presentare un carattere ingannevole. Si può chiosare più esplicitamente il richiamo normativo, sottolineando che la disciplina europea conferisce un carattere sostanziale al divieto di ingannevolezza dell’etichettatura/presentazione dei prodotti alimentari, prevalendo sulla sua eventuale correttezza puramente formale. È, infatti, proprio questo il punto della causa, poiché la confezione riportava esattamente che tra gli ingredienti non vi erano aromi direttamente estratti da lamponi e vaniglia, ma soltanto con il “gusto” di tali frutti. La Corte sottolinea, allora, che per valutare l’idoneità di un’etichettatura a indurre in errore l’acquirente occorre basarsi essenzialmente sull’aspettativa di un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto circa l’origine, la provenienza e la qualità del prodotto alimentare. In tal senso, è vero che è stato riconosciuto dalla giurisprudenza europea che nel decidere l’acquisto in base alla sua composizione i consumatori leggono prima l’elenco degli ingredienti obbligatoriamente menzionati. Tuttavia, la circostanza che l’elenco degli ingredienti sia riportato sulla confezione del prodotto non consente da sola di escludere che la sua etichettatura e le altre indicazioni riportate sulla confezione possano essere tali da indurre in errore l’acquirente. Infatti, l’etichettatura è composta da un insieme (sinergico, viene da dire) di menzioni, indicazioni, marchi di fabbrica o di commercio, immagini o simboli, tra i quali possono esservene alcuni mendaci, errati, ambigui, contraddittori o incomprensibili. È questa la situazione che si verifica quando l’elenco degli ingredienti, pur essendo esatto ed esaustivo, è inadeguato a correggere in maniera sufficiente l’impressione errata o equivoca del consumatore relativa alle caratteristiche di un prodotto alimentare risultante dagli altri elementi che compongono l’etichettatura del prodotto. Un tale giudizio di ingannevolezza va condotto sull’etichettatura come un insieme interdipendente di segni, che non rivestono soltanto un significato autonomo, ma lo acquistano anche in relazione a tutti gli altri. Nel caso di specie, la Corte ha demandato al giudice nazionale di compiere un esame complessivo dei diversi elementi che compongono l’etichettatura dell’infuso, al fine di stabilire se un consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, possa essere indotto in errore quanto alla presenza di componenti di lampone e di fiori di vaniglia o di aromi ottenuti a partire da tali ingredienti. Con l’avvertenza che in tale procedimento valutativo il giudice del rinvio debba prendere in considerazione, in particolare, i termini e le immagini utilizzati nonché la collocazione, la dimensione, il colore, il carattere tipografico, la lingua, la sintassi e la punteggiatura dei diversi elementi riportati sulla confezione dell’infuso. La Corte non poteva dare la soluzione del caso. Ma appare evidente che l’etichettatura dell’infuso era effettivamente ingannevole, nel senso della normativa europea, poiché subdolamente suggeriva l’impiego di un ingrediente (aroma di lamponi e vaniglia) che in realtà era assente, costituendo soltanto un artificio la corretta indicazione nell’elenco degli ingredienti che, nonostante le convinzioni della Corte, si può dubitare che sia la prima cosa che il consumatore medio verifichi, almeno quello nostrano. In ogni caso, è ulteriormente evidente che, nella specie, l’attenzione del consumatore fosse attratta dall’impressione d’insieme di acquistare un prodotto composto per intero da aromi estratti direttamente dai frutti. Come già affermato in precedenza, le cose non sono cambiate con il varo del regolamento (UE) 1169/11. È l’art. 7 che si occupa delle “pratiche leali di informazione”, secondo cui, tra l’altro, è sleale quella che suggerisce «tramite l’aspetto, la descrizione o le illustrazioni, la presenza di un particolare alimento o di un ingrediente, mentre di fatto un componente naturalmente presente o un ingrediente normalmente utilizzato in tale alimento è stato sostituito con un diverso componente o un diverso ingrediente.». La nostra giurisprudenza appare sulla stessa linea1, come nel caso – analogo a quello in commento – in cui fu ritenuta ingannevole l’etichettatura del prodotto nonostante la corretta indicazione degli ingredienti, ma con caratteri piccoli, praticamente illeggibili2. Un conto è, poi, un’etichetta suggestiva in maniera ingannevole, ma almeno formalmente corretta. Altro è, evidentemente, che su di essa siano riportate indicazioni più che mendaci, completamente false. Sarebbe il caso dell’indicazione di un ingrediente non presente o, al contrario, la millantata assenza di allergeni o Ogm o l’indicazione di un’origine o provenienza difforme dal reale.

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Fonte: Alimenti & Bevande